I problemi della vita non si volatilizzano a colpi di hashtag.



di Guido Perretta

E’ difficile accettare nell’epoca dei social e del buonismo di massa (ma,ahimè, quanto manca la bontà a questa società) che un problema non si possa risolvere a colpi di slogan e di hashtag. #restiamoumani dicevano, e così si sarebbero risolte la fame nel mondo, le ingiustizie sociali che purtroppo esistono e che sono inevitabili finchè ci sarà vita su questo ingiusto mondo. #nonsilega veniva invece utilizzato per sconfiggere il pericolo dittatoriale incombente. #amatrice era la formula magica che avrebbe di certo ricostruito il paese. #primaglitaliani il porto sicuro di un Paese che aveva voglia di rinascere. #milanononsiferma, gridavano festanti e gaudenti tra spritzate ostentate e con quanta più gente possibile. Eppure nessuno di loro è riuscito a risolvere nulla: gli ultimi sono ancora ultimi, i terremotati sono ancora in quella provvisorietà definitiva che è tutta italiana, la “Milano da bere” non esiste più...chissà per quanto. Solo gli italiani hanno raggiunto il triste primato di essere primi…si ma in una classifica che non avremmo voluto mai cavalcare. Ora va di moda #celafaremo, ma anche in questo caso l’affermazione lascia sempre più spazio ad un’interrogazione. E non mi stupirei che l’hashtag possa mutare, si spera di no, in un #celafaremo?

Povera generazione la nostra, che ha avuto la fortuna di non vivere guerre ma lo svantaggio di non essere forgiata al sacrificio, alla dedizione, all’ubbidienza. Perché se ti impongono una regola da rispettare scatta il meccanismo perverso di chi si sente violato delle proprie libertà, in una psicosi francamente patetica di chi vede la dittatura in ogni cosa, quasi dimenticando che le leggi esistono per essere rispettate e che dittatura e anarchia sono la faccia di una stessa medaglia, che un poliziotto e un carabiniere non sono anche loro figli di mamme e di padri e padri e madri a loro volta, ma soggetti da combattere ed eludere quasi come se fosse per loro un piacere rischiare la vita ogni giorno.
E allora scatta il sentimento ribelle, di chi si oppone al sistema pur di esercitare la propria libertà per puro gusto, per pura moda.
Ma questa volta non è il tempo di scherzare, non è il tempo di fare gli eroi né i rivoluzionari, perché se è pur vero che la libertà individuale è sacra lo è altrettanto quella degli altri che potremmo infettare, che potremmo letteralmente ammazzare contagiandoli. Anche qui, d’altronde, il #restateacasa non ha sortito effetti, ma stavolta è diverso. Stavolta il problema non riguarda un ultimo o un terremotato qualsiasi, ma riguarda noi tutti…nessuno escluso. E forse sarà la volta buona in cui impareremo chei problemi della vita non si volatilizzano a colpi di hashtag, che a volte è necessaria la sofferenza, quella vera, per rivedere la luce, che la bontà sta nell’agire e non nel proclamare, che farsi sentire vicini conta fino a un certo punto ma esserlo vale cento volte di più.
In pochi giorni i volti dei politici, le schermaglie di partito hanno lasciato spazio a morte e tragedia, schiere interminabili di bare che ci ricordano che “andrà tutto bene” è una subordinata alle nostre azioni e non una certezza. Perché no, per ora non sta andando per nulla bene… e forse la colpa non è solo dei tagli alla spesa sanitaria (che pur ci sono), ma è anche frutto di una società che non sa più far fronte agli impegni che la storia prepotentemente chiede di affrontare. Per quanto mi riguarda vorrei eliminare dall’orologio le ore 18. Sentire ogni giorno la conta dei decessi mi mette angoscia e mi getta nello sconforto. Sapere che ad ogni numero corrisponde un volto, una vita, dei ricordi…uguali ai nostri. Non numeri, ma persone. Non anziani, ma persone. Non malati, ma persone. Persone che, al di là del nuovo slogan coniato ad hoc “non per ma con il coronavirus” probabilmente avrebbero vissuto ancora. Non si sa quanto, ma di certo di più.
E se si tratta di anziani ancor di più si risveglia in me il senso di rispetto e di gratitudine nei confronti di chi ha contribuito a risollevare questo Paese ed oggi viene accantonato quasi come se la sua morte fosse scontata. Aveva 80 anni e passa…e quindi può morire. E’ questo il razzismo ai tempi del covid-19.
Per anni gli stessi anziani ci hanno schernito, dicendo di aver vissuto una guerra e visto la fame, mettendoci in guardia sul fatto che non saremmo stati in grado di far fronte alla tempesta. Però, pensandoci bene, forse quello non era scherno ma un avvertimento sui pericoli che la vita inaspettatamente riserva. Era un consiglio da parte di chi ne sa più di noi, con la speranza che l’avviso non si tramutasse in realtà.
Quanto era bello il tempo in cui si litigava per poco, e come si è inflazionato in solo un mese il concetto di sofferenza. Speriamo finisca presto, ma una cosa è certa: non finirà per un colpo di hashtag.

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